10° Domenica dopo Pentecoste (forma straordinaria)

(1 Cor 12,2-11;   Lc 18, 9-14)

Belluno, chiesa di s. Stefano, 2 agosto 2015

Ai carcerati del carcere di Palmasola, nel suo recente viaggio in Bolivia, papa Francesco disse, presentandosi a loro: “Davanti a voi sta un uomo perdonato, salvato dai suoi molti peccati”. Un atteggiamento, quello di papa Francesco, ben diverso da quello del fariseo della parabola che, stando ritto in piedi davanti a Dio, nel tempio, proclamava la sua assoluta virtù e, quasi quasi, la sua santità dicendo: “Io non sono ladro, io non sono adultero; io pago le decime fino all’ultimo centesimo di quanto possiedo; non sono come quel pubblicano che sta in fondo al tempio, dietro di me. Io sono a posto”.

Davanti a Dio quel fariseo non era a posto, se non altro perché disprezzava e giudicava il pubblicano, e si sentiva migliore di lui; dimenticando, oltretutto, che se non era caduto in peccati di furto e di adulterio, era solo perché il Signore nella sua Provvidenza e con la sua grazia lo aveva preservato da tali peccati. Senza la grazia di Dio infatti – è dottrina sicura della Chiesa – ogni uomo è capace dei più gravi peccati, dei peccati e delle nefandezze che vediamo talora commesse da alcuni e di fronte alle quali inorridiamo. Senza la grazia preveniente di Dio, quei peccati e quelle nefandezze le commetteremmo anche noi; siamo della stessa pasta di tutti i nostri fratelli. Non siamo migliori di nessuno. “Quando vado a visitare i carcerati – disse papa Francesco – penso che potrei essere io lì al loro posto; e che se non lo sono, è unicamente perché Dio mi ha preservato dall’esserlo, perché mi ha salvato in anticipo”.

La posizione giusta, l’unica posizione giusta dell’uomo, è quella del pubblicano: siamo tutti peccatori, siamo tutti bisognosi di perdono. Ci ispira compassione e tenerezza l’atteggiamento del pubblicano della parabola: va al tempio, ma si ferma in fondo; non ha il coraggio di alzare gli occhi al cielo e guardare verso l’altare; si batte il petto in segno di colpevolezza riconosciuta; chiede pietà: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. E cosa risponde Dio? “Io vi dico – afferma Gesù – quell’uomo tornò a casa giustificato”.

Dio giustifica sempre il peccatore pentito; Dio premia sempre l’umiltà. L’umiltà commuove Dio, l’umiltà lo vince. Dio non resiste davanti all’umile: “Dio resiste al superbo, ma dà grazia all’umile”, dice l’apostolo Pietro” (1Pt 5,5).

L’umiltà è anche l’atteggiamento che Dio vuole dall’uomo verso l’uomo. Il fariseo disprezzava il pubblicano: “Io non sono come quel pubblicano”, diceva. Dio non sopporta che l’uomo disprezzi l’uomo, che il peccatore disprezzi il peccatore; Dio ci vuole umili gli uni con gli altri. Siamo tutti suoi figli bisognosi di lui.

Ma come è facile invece che si insinui disprezzo, disistima, giudizio di condanna nei nostri pensieri, nelle nostre conversazioni , alle volte anche nei nostri atteggiamenti, nei confronti del prossimo! Abbiamo l’istinto dentro di noi di sentirci migliori, più a posto degli altri; strano modo, quello di denigrare il fratello, la sorella, per sentirci più buoni, più perfetti, più santi noi! Proprio facendo così ci mettiamo fuori della carità, e quindi fuori di Dio, meritando dette a noi le parole dette da Gesù del fariseo: “Quell’uomo se ne andò dal tempio non giustificato”.

Il Signore ci faccia tutti ‘pubblicani’, pubblicani come il pubblicano della parabola; vinca, demolisca e distrugga in noi il ‘fariseo’ che ci portiamo nel cuore; il fariseo che continuamente spinge per emergere e per farsi giudice di ogni altro pubblicano. Siamo tutti pubblicani peccatori, bisognosi di tanta misericordia e di perdono.

 

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