Domenica di Quinquagesima (forma straordinaria)

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(1Cor 13,1-13;    Lc 18,31-43)

Belluno, chiesa di s. Pietro, 11 febbraio 2018

 

Gesù è impressionante. Fa impressione Gesù che dalla Galilea, ove ha predicato il Vangelo, si mette in cammino verso Gerusalemme, verso il luogo della sua passione e morte. Egli sa bene dove sta andando: Gerusalemme era il luogo meno raccomandabile per lui, per la sua vita. Agli apostoli egli dice: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo”. E predice loro la sua passione, morte e risurrezione.

Gesù è pienamente lucido: ha davanti a sé umiliazione, tortura e croce. “Sarò deriso -egli dice-; mi copriranno il volto di sputi (lo sputare in faccia è il massimo dell’oltraggio, del disprezzo e dell’offesa); verrò flagellato (la flagellazione era cosa terribile: lo storico ebreo Giuseppe Flavio, del primo secolo d.C., racconta di persone sottoposte alla flagellazione che venivano scorticate fino alle ossa e morivano sotto i colpi dei flagelli); verrò messo in croce (la croce era definita dai Romani ‘maximum supplicium’, il supplizio più atroce); e poi risorgerò”.

Gesù ha chiaro davanti a sé il destino dolorosissimo che lo attende a Gerusalemme, e si mette in viaggio verso Gerusalemme. In piena libertà; non costretto da nessuno; per libera scelta. Avrebbe potuto fare a meno di andare a Gerusalemme, avrebbe potuto fuggire dalla Palestina e mettersi in salvo. Ma Gesù sa che quanto sta per accadergli è dentro un disegno, è dentro il disegno del Padre. Un disegno già annunciato; agli apostoli egli dice: “Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo”. I profeti l’avevano annunciato; il Padre aveva pensato quel disegno, anche se con grande sofferenza, perché mai avrebbe voluto che suo Figlio fosse messo in croce.

Gesù sa, dunque, che sta rispondendo a un disegno. Non sta andando incontro a qualcosa di ineluttabile e di fatale, dalla dimensione puramente umana, benché imbastito e messo in atto da soli uomini, i dottori della legge e gli anziani del popolo di Israele, suoi nemici. Ma quanto quelle persone gli faranno è dentro il disegno del Padre. Un disegno che è per la vita, per un bene grande, immenso (la salvezza dell’umanità); un disegno che sfocerà nella risurrezione e nella glorificazione dello stesso Gesù. E’ questa consapevolezza, il sapere che il suo dolore è dentro un disegno buono, che dà la forza a Gesù di accoglierlo, di uniformarvisi e di viverlo.

E’ quanto è necessario a noi. Noi davanti al dolore, alla prova e alla sofferenza siamo come ciechi. Forse non a caso l’evangelista Luca, dopo aver riportato l’annuncio della passione morte e risurrezione di Gesù, ha riportato il miracolo della guarigione di un cieco. E’ difficile per noi pensare che il nostro dolore sia dentro un disegno buono, un disegno che sfocia a salvezza. Siamo ‘ciechi’, i nostri occhi ‘non vedono’. Abbiamo bisogno di essere guariti; abbiamo bisogno di fede, di uno sguardo profondo che vada oltre; oltre il visibile, oltre lo sperimentato, oltre la sola realtà tangibile. C’è un ‘oltre’, un orizzonte divino in cui sono collocati il nostro dolore, la nostra fatica, il nostro soffrire. Ciò che patiamo è nelle mani di Dio, è tenuto in mano da lui; è volto a bene e a salvezza da lui.

Il cieco guarito -nota il Vangelo- una volta ricuperata la vista, si mise a seguire Gesù verso Gerusalemme. Andiamo anche noi verso la nostra ‘Gerusalemme’; non ci andiamo da soli, ci andiamo con Gesù; egli viene con noi. E anche la nostra ‘Gerusalemme’, come la sua, terminerà non con la rovina e la morte, ma con la vita e la risurrezione.

 don Giovanni Unterberger

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