3a domenica di Quaresima (forma ordinaria)

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 (Es 20,1-17;   1Cor 1,22-25;   Gv 2,13-25)

Duomo di Belluno, sabato 3 marzo 2018

 

La Liturgia, in questa terza domenica di quaresima, ci mette davanti, nella prima lettura, i dieci comandamenti. Sono la strada. Il testo biblico non li chiama ‘comandamenti’, li chiama ‘parole’. “Dio pronunciò tutte queste parole”, dice il testo. I dieci comandamenti sono Dio che parla, Dio che rivolge la parola al suo popolo. La Parola di Dio, nella Bibbia, è luce sulla strada, è consigliera di bene, è forza al debole, è indicazione di vita. Tutto questo sono i dieci comandamenti, le dieci ‘parole’; sono Dio che, da padre sapiente e buono, indica e insegna all’uomo come vivere, come camminare.

Balza all’occhio il fatto che le prime tre, delle dieci ‘parole’, riguardino Dio, il rapporto con lui; e che le altre sette, riguardanti il rapporto degli uomini tra di loro, vengano dopo quelle. Prima Dio, poi i fratelli. Non solo Dio, anche i fratelli; ma prima Dio. E’ il modo corretto di impostare la vita; è dare risposta alla dimensione più profonda dell’uomo; il quale, nel profondo di sé, è fatto per Dio: da Dio egli proviene e a Dio egli dovrà tornare: “In lui noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo”, afferma l’apostolo Paolo (At 17,28). Da un corretto rapporto con Dio deriverà anche un corretto rapporto col prossimo.

Il primo comandamento, la prima delle ‘dieci parole’, dice: “Io sono il Signore tuo Dio, non avrai altri dèi di fronte a me”. E’ il comandamento fondamentale, è l’abbattimento di qualsiasi possibile idolo. Gli idoli (il nostro ‘io’, la sete di potere, di avere, di godere, di affermazione di se stessi in assoluta indipendenza e autonomia) sono ‘menzogna’ (così li chiama la Bibbia); promettono felicità e si trasformano invece in padroni che rendono schiavi. Solo l’adorazione dell’unico Dio rende l’uomo veramente libero, felice, e capace di amare i fratelli.

Il secondo comandamento, la seconda ‘parola’, dice: “Non pronuncerai invano il nome del Signore”. Chiede che non venga dato ‘un nome’ a Dio. Nella mentalità biblica ‘dare il nome’ a qualcosa era esercitare potere, dominio, su di essa. Dio chiede che l’uomo non pretenda di dargli ‘il nome’, cioè di esercitare potere su di lui, di trattarlo a proprio uso e consumo; ma piuttosto che l’uomo si lasci, lui, ‘dare il nome’ da Dio, si affidi a Dio e si lasci guidare dal suo provvidente disegno.

La terza ‘parola’ dice: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo”. Chiede che un giorno della settimana sia particolarmente dedicato al Signore, sia un giorno in cui il Signore è particolarmente tenuto presente. Negli altri sei giorni l’uomo tenga pure presente se stesso e le sue necessità, lavori; ma ci sia un giorno alla settimana in cui l’uomo riposa dal lavoro e si rivolge più fortemente a Dio, cura il suo rapporto con lui, così che Dio resti presente all’orizzonte di tutta la settimana, anche dei sei giorni di lavoro, e non venga totalmente dimenticato.

Alle prime tre ‘parole’, riguardanti Dio, seguono, nel decalogo, le altre sette, riguardanti il prossimo. E si inizia dal prossimo più prossimo di ogni persona, il padre e la madre: “Onora tuo padre e tua madre”. Il termine ebraico tradotto con ‘onora’ è ‘kavvèd’ ( כַּבֵּך ), che propriamente significa ‘avere peso’, ‘avere importanza’. Tuo padre e tua madre abbiano per te importanza, siano per te persone che hanno ‘peso’ nella tua vita, persone di cui tenere conto, da non trascurare nei loro consigli, nei loro avvertimenti, nelle loro necessità. Sono le tue radici!

Da coloro che ci hanno dato la vita si passa, con la quinta ‘parola’, ad ogni vita: da rispettare, da non violare, da non eliminare. Mai, in nessun caso. “Non uccidere”, dice perentoriamente il Signore.

E poi si giunge all’ambito in cui la vita nasce: la famiglia. “Non commetterai adulterio”, dice la sesta ‘parola’. E’ la difesa della sacralità dell’unione uomo-donna, realtà delicata, impegnativa, ma preziosa e necessaria per un vero benessere della persona e per una società ben ordinata.

La settima e l’ottava ‘parola’ riguardano i beni materiali dell’uomo, da rispettare, e le relazioni umane da conservare e portare avanti nella verità e nella sincerità: “Non ruberai; non pronuncerai falsa testimonianza”.

Infine le ultime due ‘parole’, che vanno fin dentro l’uomo e arrivano al suo cuore, domandando una moralità non solo esterna, ma anche del desiderio e delle intenzioni: “Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo”.

Sappiamo che Gesù, nel Discorso della montagna, ha portato a compimento e a perfezione i dieci comandamenti, le dieci ‘parole’: “In antico vi fu detto…  ma io vi dico…” (cfr Mt 5,21-48); ma già i dieci comandamenti sono regola di vita buona, sono obbedienza gradita a Dio, sono assicurazione di vita felice. Chiediamo al Signore che ci aiuti a viverli e ad osservarli.

 

don Giovanni Unterberegr

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