2a domenica del tempo ordinario (forma ordinaria)


Nozze di Cana – Veronese – 1563 – Louvre Parigi

(Is 62,1-5;   1 Cor 12,4-11;   Gv 2,1-11)

Duomo di Belluno, 20 gennaio 2019

Di ‘vino buono’ ne abbiamo tutti, almeno un po’. E’ difficile trovare una persona che sia solo male, solo cattiveria, malizia e malvagità. In tutti il Signore ha posto qualcosa di buono e di positivo, che in qualche momento e in qualche misura affiora. Soltanto che -ed è ciò a cui siamo invitati a pensare grazie al Vangelo che abbiamo ascoltato- il bene nell’uomo non è molto, non è sufficiente. Alle nozze di Cana il vino, ad un certo punto, venne a mancare. Gli sposi, o l’incaricato della festa, avevano calcolato male le cose; avevano ritenuto sufficiente ciò che di fatto sufficiente non era.

Quante volte l’uomo calcola male e si sbaglia! Per presunzione. La presunzione, figlia dell’orgoglio, spinge a pensarsi più di quanto si è, più capaci e con più forze di quelle che realmente si hanno. Assistiamo talvolta, nelle cose di questo mondo, ad imprese e progetti interrotti e lasciati a metà perché vengono a mancare le forze, le risorse, le capacità. Gesù mette fortemente in guardia dalla presunzione. Nel Vangelo di Luca avverte: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima ad esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace” (Lc 14,28-32).

Con queste parabole Gesù intendeva riferirsi alla vita spirituale, nella quale il pericolo della presunzione è ancora più forte che non nelle cose materiali. Esempio eclatante è l’apostolo Pietro, che, durante l’ultima cena a Gesù che andava predicendo agli apostoli che lo avrebbero tutti abbandonato scandalizzati, protestò fedeltà assoluta: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò” (Mc14,29); “con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte” (Lc 22,33); ma poche ore dopo Pietro rinnegò il Maestro tre volte. Pietro non si conosceva abbastanza, non conosceva fino in fondo la propria debolezza e fragilità.

Quante volte anche noi ci siamo proposti di non cadere nella pigrizia, nella critica, nella mormorazione, nell’egoismo, nell’impurità, e vi siamo invece caduti! Abbiamo superbamente presunto di noi stessi e delle nostre forze. Noi siamo precarietà, siamo totale instabilità. Il profeta Osea dice: “Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce” (Os 6,4). Dio invece è forza, stabilità, roccia. Innumerevoli volte l’Antico Testamento chiama Dio ‘roccia’ (cfr Dt 32,4; 2Sam 22,.2; Sal 31,4); e colui che a Dio si stringe e su di lui si fonda, diventa egli stesso ‘roccia’, viene a partecipare della stabilità di Dio.

‘Stabile’ -stabile nel bene, perseverante nel bene- è l’uomo che prega. L’uomo che prega molto persevera e dura, è capace di molto bene; l’uomo che prega poco cade, cede, si perde facilmente sotto il colpi delle proprie passioni, vittima della propria infermità e debolezza spirituale. La preghiera è realtà di straordinario valore; Tertulliano, autore del II-III secolo d. C., scrive: “La preghiera lava i peccati, respinge le tentazioni, conforta i pusillanimi, incoraggia i generosi, calma le tempeste, sostiene i poveri, ammorbidisce il cuore dei ricchi, rialza i caduti, sostiene i deboli, sorregge i forti”. Non è possibile una vera vita spirituale senza preghiera, o con poca preghiera. “La preghiera non è tutto -ebbe a dire Tommaso Moro- ma tutto deve cominciare dalla preghiera, perché l’intelligenza umana è troppo corta e la volontà dell’uomo troppo debole; perché l’uomo che agisce senza Dio non dà mai il meglio di sé”.

A Cana il vino fu poco, ma Gesù ne diede del nuovo e lo fece bastare,; al pari le nostre forze sono poche e insufficienti, ma Gesù, se lo preghiamo, le rende sufficienti per grandi imprese, per un cammino nientemeno che di santità.

don Giovanni Unterberger

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