30^ domenica del Tempo ordinario (forma ordinaria)

Raffaello Sanzio – Disputa del Sacramento – 1509

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(Es 22,20-26;  1Tess 1,5c-10;   Mt 22,34-40)

Duomo di Belluno, 25 ottobre 2020

Insomma Gesù non aveva vita facile, era continuamente insidiato. Il suo insegnamento disturbava, ed egli a sua vota era continuamente disturbato; ora lo attaccavano i farisei, ora i sadducei, ora gli erodiani, ora tutti insieme. Dicci: “E’ lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. Dicci: “Di chi sarà moglie, nella risurrezione, la donna che qui in vita ha avuto sette mariti?” (è il brano di Vangelo tra quello proclamatoci domenica scorsa e quello di oggi). Dicci: “Nella Legge qual è il grande comandamento?”. Gesù rispondeva con la sapienza che attingeva dal Padre; dava risposte che inchiodavano i suoi malevoli interlocutori, i quali non sapevano cosa replicare; infatti che cosa si può obiettare alla verità?

Con la risposta al dottore della Legge del Vangelo di oggi Gesù andava al cuore della questione: il cuore di tutto è amare, amare Dio e amare il prossimo. Ma che cos’è amare? Amare è anzitutto uscire da sé. C’è nell’uomo un ‘io’ che vorrebbe restare chiuso in se stesso; che, anzi, vorrebbe attrarre tutto a sé, fare che tutto fosse al suo servizio, per stare bene lui. E’ l’inganno. Forse che un fiume non deve rimanere aperto alla sorgente, e i frutti di un albero, per maturare, rimanere aperti alla radice? Quell’apertura è vita.

L’uomo, dice Gesù, deve amare Dio, e amarlo con tutte le forze, con tutto se stesso, cioè rimanergli aperto. Rimanere aperti a Dio significa anzitutto riconoscere chi egli sia, il datore di tutto. Da chi viene il mondo, il creato, la realtà in cui abitiamo? Da chi veniamo noi stessi? La cosa più gravemente deleteria e dannosa per l’uomo è tagliare il proprio rapporto con Dio, o anche solo il dimenticarlo. Cosa non così rara, forse, anche a noi. Ciò capita ogni volta che nelle nostre giornate vivessimo senza lui all’orizzonte, così immersi nelle cose e negli impegni da non tenerlo presente; da non dirgli spesso: “Signore, che cosa vuoi che io faccia? Sei d’accordo con quello che sto per fare, per dire, per progettare, per scegliere, per decidere?”. Romperemmo ancor di più la nostra apertura a lui col peccato, col venir meno ai suoi comandamenti, col fare ciò che piace a noi e non ciò che è gradito a lui. “Se uno mi ama, osserverà la mia parola”, ci ha detto Gesù nel  canto al Vangelo. Sembra strano che l’uomo faccia tanta fatica a convincersi che nell’apertura a Dio è lui a guadagnare, e non Dio; che i comandamenti del Signore sono bene per lui, e non per Dio.

C’è poi l’amore al prossimo. La prima lettura ci ha presentato tutta una serie di persone bisognose: il forestiero, la vedova e l’orfano, che nella società ebraica erano senza appoggio e protezione; il povero bisognoso di un prestito, il povero che per coprirsi la notte aveva solo il mantello. Amare il prossimo è essere aperti a lui, non chiudergli il cuore. Analogamente a quanto detto per Dio, anche nell’apertura al prossimo c’è un bene per l’uomo; l’uomo che ama il fratello tesse relazioni, dà risposta a come è fatto (Dio ci ha fatti per amare), trova senso di vita molto più che nel vivere egoisticamente.

Amare costa, e alle volte può costare molto, ma mette al riparo dal nichilismo, dal non senso del vivere; dà statura all’uomo e gli prepara un’eternità beata in cielo. Il Signore ci dia di amare; chiediamoglielo senza stancarci. L’amore costruisce.

don Giovanni Unterberger

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