Domenica del Battesimo di Gesù (forma ordinaria)

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(Is 55,1-11;   1Gv 5,1-9;   Mc 1,7-11)

Duomo di Belluno, 7 gennaio 2018

 

Il Padre non avrebbe potuto pronunciare su Gesù, il giorno del suo battesimo, parole più belle di quelle che pronunciò: “Tu sei il mio Figlio, l’amato; in te ho posto il mio compiacimento”. Il Padre rivelò a Gesù, quel giorno, il suo cuore, la sua affezione, il suo grande amore per lui, suo figlio; “Tu sei il mio compiacimento!”, gli disse. Gesù meritava del tutto il compiacimento del Padre. Gesù era il Verbo di Dio; e quel Verbo di Dio, prima di incarnarsi in Gesù, aveva detto un grande ‘sì’ al Padre; al Padre che gli chiedeva di scendere tra gli uomini, di farsi uomo egli stesso, e portare salvezza al genere umano. Ora Gesù, Dio fatto uomo, era anche nella sua umanità un ‘sì’ generoso e pieno al Padre.

Era vissuto a Nazareth in umiltà e semplicità per oltre trent’anni, tra gente povera e senza alcuna cultura e importanza, perché così il Padre aveva voluto; aveva esercitato una professione comune a molti, la professione di falegname; non aveva preso moglie e non si era sposato, cosa che allora era di tutti, perché il Padre lo voleva tutto per sé e per la missione che gli avrebbe affidato. E anche in futuro Gesù avrebbe fatto pienamente la volontà del Padre: “Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”, egli disse un giorno agli apostoli (Gv 4,34). L’obbedienza di Gesù sarebbe giunta fino alla croce, fino alla morte, fino alla spogliazione totale di sé. Il Padre non poteva se non dire a Gesù: “Io ho posto in te il mio compiacimento!”

Questa parola, ‘compiacimento’, era già risuonata nell’Antico Testamento. Dio l’aveva già pronunciata, e su una realtà ben diversa dalla realtà di Gesù. L’aveva pronunciata sulla città di Gerusalemme. Gerusalemme era stata devastata e distrutta; a causa delle sue infedeltà all’alleanza e dei suoi peccati era caduta sotto i colpi del re babilonese Nabucodonosor e privata dei suoi abitanti. Essi, deportati in terra straniera, dicevano: “Siamo divenuti tutti come una cosa impura e come un panno immondo; le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento” (Is 64,5). A quella città Dio disse: “Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi darò pace. Tu sarai una magnifica corona nella palma del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più ‘Abbandonata’, né la tua terra sarà più detta ‘Devastata’, ma tu sarai chiamata ‘Mio compiacimento’, e io mi compiacerò di te” (Is 62,1.4).

Dio che si compiace di Gerusalemme, pur infedele e peccatrice! Dio che non ritira il suo amore e il suo affetto all’uomo peccatore! Dio che vuole di continuo rinnovare, rigenerare, recuperare l’uomo che si è perduto; dargli ancora la sua grazia e la sua salvezza, come a Gerusalemme, per potersi ancora compiacere dell’uomo, di ogni uomo, sia pure ‘figlio prodigo’!

Quanto consola la capacità di Dio di compiacersi di noi, per quanto poveri, deboli, imperfetti e peccatori! Egli non si compiace solo di Gesù, giusto e santo, ma anche di noi, se, pentiti, cerchiamo di risollevarci dai nostri peccati, e torniamo a lui dopo ogni sbaglio ed errore con fiducia e buoni propositi. Nella sua infinta e inesauribile carità, nel suo amore senza limiti che mai si stanca, egli pronuncia anche su di noi le parole che pronunciò su Gesù: “Tu sei mio figlio, amato; in te ho posto il mio compiacimento”.

don Giovanni Unterberger

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