Domenica di Passione

Carlo Crivelli – San Francesco raccoglie il sangue di Cristo – 1490-1495 circa

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(Ebr 9,11-15;   Gv 8,46-59)

Domenica 3 aprile 2022, risalente al 17 marzo 2013

Con questa domenica entriamo nel Tempo di Passione: due settimane in cui la Chiesa ci invita a tenere più intensamente lo sguardo e il cuore fissi su Gesù sofferente. La Passione di Gesù fu di due tipi, ebbe due aspetti, tremendi tutti e due.

La prima lettura, tolta dalla lettera agli Ebrei, ci ha fatto balenare il primo aspetto. Ce lo ha fatto solo balenare, non ce lo ha descritto nei suoi particolari, ma già il semplice accenno ci lascia quanto mai colpiti. Ci ha detto la lettera agli Ebrei: “Cristo è venuto e ci ha redenti non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, procurandoci così una redenzione eterna”.

Gli antichi Ebrei sacrificavano e uccidevano agnelli, capri e vitelli per ottenere il perdono dei propri peccati ed essere riaccolti da Dio, per essere riammessi in comunione con lui. Non le tormentavano quelle povere vittime i sacerdoti ebrei; possiamo immaginare: con un solo fendente, ben assestato, le uccidevano e le facevano morire. Non così Gesù, vittima sacrificale per i nostri peccati: egli fu tormentato e massacrato, torturato con crudeltà disumana, oltre misura. La flagellazione romana, senza un numero massimo di colpi fissato, a differenza della flagellazione ebraica che non consentiva più di quaranta colpi, lacerò terribilmente le carni di Gesù, facendone uscire a rivoli il sangue. La corona di spine, una calotta spinosa che gli avvolgeva tutta la testa, gli si conficcò nelle tempie e nella cute. La crocifissione, supplizio terribile, con chiodi infissi nei polsi e nei piedi, che costringevano il crocifisso a continui movimenti di sollevamento del corpo e di accasciamento per poter respirare ed introdurre aria nei polmoni compressi, comportava dolori lancinanti indescrivibili. Tutto il corpo di Gesù era coperto di sangue, dalla testa ai piedi. I nostri crocifissi non rendono neppure in minima parte la condizione del corpo martoriato e insanguinato di Gesù in croce. “Con il proprio sangue”, ci ha detto la lettera agli Ebrei, Gesù ci ha salvati e rendenti. Questo è il primo aspetto doloroso, la prima dimensione di sofferenza, della passione di Gesù per la nostra salvezza: l’aspetto fisico.

Ma c’è poi un secondo aspetto, una seconda dimensione, messaci davanti e fattaci considerare dal brano di Vangelo che abbiamo ascoltato. Giovanni ci ha presentato un momento di disputa e di confronto tra i Giudei e Gesù. Gesù parlava ai Giudei e cercava di far loro capire il dono di salvezza che egli era venuto a portare loro: “Se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte”, diceva. Gesù si presentava e si offriva ai Giudei come il salvatore, come il redentore, come colui che poteva dare loro una vita che non avrebbe mai più avuto fine, la vera vita, la vita stessa di Dio; e i Giudei, di riscontro, gli dicevano: “Tu hai un demonio, tu sei un indemoniato”. Per due volte i Giudei lanciano questa accusa contro Gesù nel brano di Vangelo che abbiamo ascoltato. E nel colmo del loro furore e del loro rifiuto di Gesù, “raccolsero pietre per scagliarle contro di lui”, dice Giovanni; cercarono di lapidarlo, tanto che Gesù dovette rifugiarsi e nascondersi nel tempio per mettersi in salvo dalla loro rabbia omicida.

Ecco il secondo aspetto, la seconda dimensione della passione di Gesù, dimensione spirituale, che non fu certo meno dolorosa e meno sofferta dell’altra dimensione, quella fisica: Gesù si sentì rifiutato nel suo amore, nel suo dono d’amore. Era venuto per portare salvezza all’uomo, all’uomo che era perduto, smarrito, rovinato e lontano da Dio, e si vide rifiutato.

È il dolore che egli prova di fronte al rifiuto di ogni uomo, dei Giudei allora e di noi oggi. Ogni volta che un uomo gli dice “no”, il suo cuore soffre, patisce, sanguina. Soffre, patisce e sanguina non tanto perché si senta lui personalmente rifiutato, quanto piuttosto perché vede che l’uomo, con i suoi “no”, si tiene lontano dalla salvezza, rifiuta il proprio bene, si chiude nella propria rovina e si perde.

Sulla croce Gesù patì una forte sete, sete fisica, procuratagli dalla perdita di sangue e dalla febbre alta, tanto che disse: “ho sete”; in quella sete i Padri della Chiesa videro un’altra sete, la sete della salvezza di noi uomini. Nell’ “ho sete” di Gesù i Padri della Chiesa hanno sentito Gesù dire: “ho sete di te, uomo; ho sete del tuo bene, di quello che è il tuo vero bene, ho sete della tua salvezza, perché ti amo così tanto che il vederti andare perduto mi provocherebbe un dolore mortale. Muoio, e sono disposto a morire per te, ma tu lasciati salvare!”

Abbiamo davanti a noi i giorni della Passione di Gesù; immergiamoci in questo mistero di dolore e d’amore. Facciamo conto di una passione così dura e così acerba; non rendiamola più dura con i nostri peccati; solleviamo Cristo con le nostre opere buone e accogliamo tutti i frutti di quella Passione. Una strofa della sequenza “Dies irae” canta: “Quaerens me sedisti lassus, redemisti crucem passus, tantus labor non sit cassus”: “Nel cercarmi ti sei seduto stanco, mi hai redento col supplizio della croce, che tanta sofferenza non sia vana”. Non sia vana, no, per noi la Croce di Cristo! Cristo sarà allora contenta d’averla sofferta!

Don Giovanni Unterberger

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