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(1 Pt 2,11-19; Gv 16,16-22)
Domenica 8 maggio, risalente al 21 aprile 2013
Gesù si trova a mensa con gli apostoli e sta consumando l’ultima cena con loro, prima di patire e di morire. E li consola. Li consola di fronte alla nuova situazione che essi dovranno affrontare, una situazione dolorosa. Egli, il maestro, l’amico, il senso della loro vita, colui che aveva acceso i loro cuori, sta per lasciarli, e sta per essere messo in croce; sta per morire. Ciò sarebbe successo di lì a poche ore.
E Gesù dice: “Ancora un poco e non mi vedrete; e un po’ ancora e mi vedrete”. Gli apostoli non capiscono. Quell’ “ancora un poco e non mi vedrete” allude alle poche ore, ormai, che separano Gesù dalla sua morte, dopo le quali gli apostoli per un po’ di tempo non lo avrebbero più visto, perché egli sarebbe stato deposto nel sepolcro. Ma poi Gesù aggiunge: “un po’ ancora e mi vedrete”, alludendo ai giorni in cui gli apostoli, dopo non averlo più visto, lo avrebbero rivisto di nuovo, vivo, e sempre presente a loro.
E lo avrebbero rivisto “nella gioia”, dice Gesù. Come una mamma quando partorisce è nel travaglio e nella sofferenza, ma poi quando il bambino è nato è tutta felice, ed è nella gioia, “così voi – dice Gesù – ora siete nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo, da risorto, e il vostro cuore si rallegrerà”.
Quanto è vero questo “un poco e non mi vedrete; e un po’ ancora e mi vedrete”! come è vero questo vedere, non vedere, e vedere di nuovo! Questo alternarsi di comunione e di non comunione; di presenza e di assenza; di vicinanza e di lontananza; di appartenenza e di estraneità. Come è vero questo, sia nel rapporto con Dio, che nel rapporto tra di noi!
Certamente l’abbiamo più volte sperimentato.
Nel rapporto con Dio. Noi vorremmo poter sempre gustare Dio, sentire sempre la sua presenza, percepirlo come un partner sensibile che dà risposta, oltre che alla nostra mente e al nostro cuore, anche al nostro mondo emozionale, al nostro sentimento, e perfino, almeno in qualche misura, alla dimensione fisica del nostro essere. E invece Dio tante volte ci si nega, si nega alla nostra esperienza sensibile e gratificante di cui vorremmo godere, e che vorremmo gustare. Sì, in qualche occasione, in qualche circostanza, in qualche momento di particolare e più intensa preghiera ed esperienza religiosa, Dio si fa sentire e percepire a noi in maniera vivida e forte, ma poi, nella normalità delle cose e delle giornate, egli spesso ci sembra assente, lontano, come estraneo. E allora soffriamo.
Momenti importanti, questi, dell’assenza, tra virgolette, di Dio. Momenti preziosi; momenti che ci costringono a cercare Dio, a rivolgerci a lui con maggiore distacco da noi stessi, con maggiore gratuità nel rapporto; non per quello che di piacevole noi possiamo attingere dall’incontro con lui, ma perché il nostro incontro con lui sia di lode, di adorazione, di glorificazione di lui, sia di offerta; e sia quindi un rapporto più vero, più profondo, più degno di lui. In tal modo noi cresciamo nel nostro spirito, e ci disponiamo ad un’esperienza di Dio più grande, più alta e più bella, che ci darà maggiore gioia e maggiore felicità, quando poi Dio di nuovo si donerà a noi e ci incontrerà.
Qualcosa di simile accade anche tra di noi. Chi non è passato da uno stadio di comunione con una persona, ad uno stadio di non comunione, o di minor comunione, con quella persona? Chi di noi, ad un certo punto, non ha sofferto di una certa estraneità con la persona a cui sentiva di appartenere e che sentiva appartenergli? È cosa normale, questa; è cosa dolorosa, ma normale, perché continuamente evolviamo; ed è cosa benefica, utile, amica nostra, perché ci chiede e ci domanda di crescere, di salire a un livello di maggiore maturità umana e spirituale, livello di maggiore dono di noi, di maggiore capacità di apertura all’altra persona, di mortificazione più profonda del nostro “io”; e così diventiamo più capaci, più pronti, più disposti a dare comunione e a ricevere comunione; una comunione più alta, più profonda, più vera, più rispondente alle dimensioni più autentiche della nostra persona e della nostra natura umana; e quindi più bella, più gioiosa, più gratificante, e più felice.
Il Signore, con quel suo dire: “ancora un poco e non mi vedrete; e un po’ ancora e mi vedrete”, vuole darci speranza. Vuole dire ai suoi apostoli e a noi: c’è un vedersi, un non vedersi, e un vedersi di nuovo che è più bello del primo; c’è un essere in comunione, un perdere la comunione e un ritrovare e ricostruire una comunione che è più bella della prima; ciò costa fatica e generosità, domanda impegno e sofferenza, domanda morte (nel caso degli apostoli la morte di Gesù e la loro sofferenza), ma è un salire ad un futuro di vita migliore. È per raggiungere un “di più”, è per arrivare a un qualcosa di più bello e di più beatificante.
Accettiamo questo “vedere, non vedere e vedere di nuovo”. Costruiamolo, con l’aiuto di Gesù.
Don Giovanni Unterberger