(Ez 2,2-5; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6)
Duomo di Belluno, 4 luglio 2015
L’abitudine è una cosa brutta. Veramente c’è anche un’abitudine buona. La virtù è un’abitudine buona. La definizione di virtù è: “Abitudine a fare il bene, acquisita con la ripetizione frequente di atti buoni”. Con tanti atti di umiltà, di pazienza, di generosità ripetuti si acquista la “virtù” dell’umiltà, della pazienza, della generosità, l’ “abitudine” ad essere umili, pazienti, generosi. E questa è un’abitudine buona, un’abitudine che rende più facile fare il bene. Ci sono abitudini buone.
Ma c’è un’abitudine cattiva, quella che ci porta a fare le cose “per abitudine”. Fare le cose “per abitudine” è segno di paralisi dell’anima, di cuore sclerotizzato, di vita che boccheggia. Fare le cose “per abitudine” chiude al nuovo e alla sorpresa, chiude al senso pieno della realtà e della vita.
Gli abitanti di Nazareth si erano “abituati” a Gesù. L’avevano avuto tra loro per più di trent’anni, l’avevano visto crescere, frequentare la sinagoga, lavorare da falegname. Era in tutto uno di loro; sì, con caratteristiche e doti particolari, ma, in fondo, uno di loro: con un padre, una madre, dei parenti, una professione: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”, dicevano. Gli abitanti di Nazareth erano convinti di conoscere tutto di Gesù, gli si erano “abituati”. Di fronte alle cose nuove e grandi che egli andava dicendo in sinagoga quel sabato, sorgevano nel loro cuore delle domande: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?” Ma quelle domande s’imbattevano nel muro della loro trentennale conoscenza e “abitudine” a Gesù; per cui ogni risposta, aperta alla novità di Gesù-Messia, veniva subito bloccata e fatta cadere.
Neppure i miracoli di Gesù erano in grado di demolire quella presunta conoscenza, quella “abitudine” a Gesù. Dicevano infatti i nazarethani: “E i prodigi compiuti dalle sue mani, da dove gli vengono?” Avevano sentito raccontare dei miracoli compiuti da Gesù a Cafarnao e nelle sinagoghe della Galilea, ma neppure quei miracoli erano sufficienti a smuoverli dal loro pensiero su Gesù. E Gesù dovette costatare amaramente: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
Fare le cose “per abitudine” è un’insidia tanto comune. Può colpire anche le cose più grandi e più sante. Si può venire a Mesa, fare la Comunione, recitare il Rosario, fare altre pratiche di pietà “per abitudine”, senza che il cuore sia davvero presente, senza che la vita ne venga davvero coinvolta. L’abitudine può spegnere ogni slancio, ogni ardore di bene, ogni impegno di santità. Il fare le cose “per abitudine” toglie vitalità ai rapporti; rende monotona una vita matrimoniale, la fa scadere nella routine, nella noia e nell’insoddisfazione.
Occorre mettere vita in ogni cosa che facciamo, in ogni gesto che compiamo. Occorre essere presenti istante dopo istante nel tempo che viviamo, così che il tempo non ci scorra a lato, e non ci lasci la triste sensazione di non essere neppure vissuti. Non cade nell’abitudinarietà colui che sa tenere il cuore aperto, capace di sorprendersi, capace di cogliere la novità del fratello, della sorella, anche dopo anni di vita insieme. “Sappiamo chi è Gesù”, dicevano i nazarethani, e si chiudevano alla potenza di salvezza del Messia che avevano davanti a sé.
Sia il nostro cuore vigile, presente alla novità del reale; pronto a fare le cose come fosse la prima e l’unica volta che le facciamo, anche le cose solite, quelle di tutti i giorni. Non possiamo immaginare un Gesù che facesse le cose “per abitudine”. Egli ha fatto bene ogni cosa (Mc 7,37), con impegno e sempre presente a se stesso, nella ricerca della gloria del Padre e del bene dell’umanità. Sforziamoci di fare anche noi così.