5a domenica di Pasqua (forma ordinaria)

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(At 9,26-31;   1Gv 3,18-24;   Gv 15,1-8)

Duomo di Belluno, sabato 28 aprile 2018

 

Pelagio era un monaco di origine inglese, vissuto dal 360 al 420 d.C., teologo di grande cultura. Visse a Roma, nel nord Africa e in Palestina, e fu all’origine di un’eresia chiamata ‘pelagianesimo’ dal suo nome; una corrente di pensiero che affermava la capacità dell’uomo di salvarsi con le sole sue forze: l’uomo sarebbe capace di compiere il bene e vivere virtuosamente col solo sforzo della propria volontà, senza avere bisogno della grazia di Dio, senza che gli sia necessario l’aiuto del Signore.

Niente di più contrario a quanto ci ha detto ora Gesù nel Vangelo: “Senza di me non potete fare nulla”; e niente di più contrario anche alla nostra personale esperienza, così realisticamente e drammaticamente descritta dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani: “Non riesco a capire ciò che faccio: non ciò che voglio io faccio, ma ciò che detesto. Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo del peccato. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”, cioè da questa mia misera condizione? E l’apostolo conclude: “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”, perché è lui, Cristo, che mi libererà da questa mia misera condizione di peccatore (Rm 7,15. 19. 22-25).

“Senza di me non potete fare nulla”, dice Gesù. Nulla è ‘nulla; nulla non è: ‘poco’; non è: ‘qualche cosa’; nulla è ‘nulla’! E ciò già a livello di esistenza: neppure respirare io posso e sono in grado di fare senza Gesù, senza Dio; neppure alzarmi al mattino, andare al lavoro, fare qualsiasi cosa, perché senza di lui, senza la sua grazia, senza il suo dono, io non esisto. Io ricevo continuamente, momento per momento, me stesso da Dio, il mio esistere da lui. Per cui senza di lui non posso fare proprio nulla! E ciò vale in pieno anche sul piano spirituale e morale: senza Gesù, senza il suo aiuto, io non sono capace di compiere nessuna opera buona. Sant’Agostino, che fortemente combatté l’eresia di Pelagio, disse: “Tutto il bene che l’uomo compie è compiuto per grazia di Dio; dell’uomo, di lui da solo, è unicamente il peccato”.

Questa totale dipendenza dell’uomo da Dio, dal Signore, Gesù l’ha espressa con l’immagine della vite i tralci. Lui è la vite, noi siamo i tralci; noi, uniti a lui-vite, portiamo frutto, frutti di bontà, di carità, di amorevolezza, di amore vero; staccati da lui ‘secchiamo’, cioè perdiamo ogni capacità di bene, e cadiamo in ogni sorta di vizi e di peccati. Ecco allora il pressante invito di Gesù: “Rimanete in me e io in voi”.

‘Rimanere in lui’ è il grande compito, il grande impegno e la grande sfida. E’ sfida al nostro orgoglio, alla nostra superbia e al nostro ‘io’, che pensa di poter fare da solo, di avere le forze e la capacità in se stesso di fare il bene; per cui chiede poco, prega poco, ricorre poco al Signore, alla sua Parola, ai suoi Sacramenti. Un po’ della superbia di Pelagio può esserci e annidarsi anche in noi.

“Rimanete in me” è anche sfida ad un eccessivo attivismo, ad un fare che diventasse frenetico, continuo e inarrestabile, tanto da non lasciare spazio a Dio, a Gesù, alla sua presenza, alla sua compagnia e alla sua opera nella nostra vita.

‘Tralci di una vite’ noi siamo, non esseri autonomi e a sè; creature ‘dipendenti’, di una dipendenza buna e vitale, noi siamo: custodiamo e coltiviamo questa dipendenza: è a nostro favore.

 don Giovanni Unterberger

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