De oboedientia

DE OBŒDIENTIA

La parola “obbedienza” è una parola che ha subito, in una certa cultura e in una certa mentalità, anche oggi molto diffusa, un destino sfavorevole; è stata associata all’idea di sottomissione, quasi schiavizzazione; è stata intesa come perdita e rinuncia alla libertà, e quindi una diminuzione della persona. Non poteva capitare un destino peggiore all’obbedienza, che non è nulla di tutto ciò, e che è invece una realtà positiva; positiva, se Cristo stesso l’ha scelta e l’ha voluta vivere: “fattosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce” (Fil 2,8).

È interessante, per capire la natura e l’essenza dell’obbedienza, analizzare i termini latino e greco che esprimono l’obbedienza. Il latino e il greco sono le radici della nostra lingua e della nostra cultura.

La nostra parola “obbedienza” deriva dal latino “ob-audire”, che significa “udire, ascoltare con l’animo rivolto e aperto a qualcuno che ti parla, a qualcuno in cui tu ravvisi autorevolezza”. L’obbedienza quindi chiede un gesto di decentramento da sé, di uscita da sé per impiantarsi in un altro. Questo decentramento da sé manca nel concetto di obbedienza greco, pagano. In greco il verbo “peitho” significa “persuadere”. “Peitho” è forma attiva del verbo. Nella forma passiva “peitho” significa “venir persuaso, essere persuaso”. Il greco ha anche la forma ‘media’ cosiddetta, “peithomai”, che significa “persuadersi”, e insieme “ubbidire”. Il fatto che la lingua greca esprima allo stesso modo, con la stessa forma verbale, con la stessa parola, sia “persuadersi” che “obbedire”, significa che per l’uomo greco, pagano, l’obbedienza è il gesto che va fatto quando tu ti sei persuaso della giustezza di quello che per obbedienza ti viene chiesto. Ma questa non è  obbedienza, è un obbedire a sé stessi.

Facciamo qualche rapida considerazione circa l’obbedienza.

1.         A chi obbedire? L’obbedienza anzitutto va fatta a Dio. È Lui il nostro creatore, il nostro supremo signore. Egli ci indica la strada giusta. Poi va fatta alla Comunità fondata da lui, la Chiesa, la quale ha in sé Cristo stesso e lo Spirito Santo, che la tengono e conservano nella verità. Si è chiamati ad obbedire anche ai fatti della vita, agli eventi che ci succedono, perché attraverso di essi il Signore ci modella e ci costruisce. Occorre obbedire ai percorsi spirituali in cui ci si è venuti a trovare; sono i cammini di Provvidenza che il Signore ci ha messo davanti e per i quali ci conduce.

2.         Obbedire richiede decentramento da sé, e il decentramento da sé richiede umiltà. Solo l’umile obbedisce; il superbo non obbedisce, il superbo obbedisce a se stesso. Ma il decentramento da sé è sempre e solo negativo?

3.         L’ostacolo più grande all’obbedienza, come facilmente si capisce, è il proprio “Io”. Un “io” autonomo, che pretende indipendenza assoluta, slegamento da tutti e da tutto. Un “io” così non può obbedire, potrà solo affermare se stesso, trovandosi immediatamente in contrasto con tutti, e creando contrasti.

Altro ostacolo all’obbedienza è il proprio comodo, il proprio gusto, ciò che piace a me, se perseguito e accontentato.

4.         Perché obbedire? Perché l’obbedienza crea e assicura “comunione”. La comunione tra le persone è un bene grandissimo, preziosissimo; è forse il bene più grande. C’è bisogno di obbedienza, perché l’obbedienza crea unità; altrimenti è la disgregazione  e la rovina.

5.         L’obbedienza non è diminuzione di libertà. Io posso liberamente obbedire. Spesso si concepiscono obbedienza e libertà come due realtà antitetiche tra loro, quasi che una escluda l’altra. Non è così. Io posso liberamente obbedire; posso liberamente decidere di obbedire. Piuttosto devo stare attento perché la libertà potrebbe essere un pericolo se non obbedisco, in quanto potrei diventare schiavo del mio “io”, dei miei gusti, dei miei interessi, dei miei egoismi.

6.         Obbedire costa; non posso illudermi che non costi. Costò a padre Zermich e a padre Lyonnet, due insigni professori di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico di Roma, accusati di eresia, che furono sospesi dall’insegnamento, per misura cautelare, dal beato papa Giovanni XXIII nel 1961, e che furono reintegrati quattro anni dopo. Padre Zermich e padre Lyonnet obbedirono, pur convinti di essere nel giusto, come poi fu di fatto ben dimostrato. Io li ebbi come insegnanti all’Istituto biblico negli anni dal 1967 al 1970.

7.         L’obbedienza va vissuta in un clima di discernimento e di dialogo. Evidentemente ci sono valori non discutibili, non negoziabili, come, per un cristiano, le verità di fede rivelate da Dio e proposte dalla Chiesa, e come le norme morali fondamentali scritte nel cuore di ogni uomo con i dieci comandamenti.

Ma ci sono tante altre situazioni che ci domandano l’obbedienza e che hanno bisogno di discernimento. Spesso la persona si trova ad essere toccata da impegni vari, da chiamate che la raggiungono da parti diverse, e non è sempre facile dare la risposta giusta. Occorre saper capire qual è, di volta in volta, il valore preminente, la cosa più giusta, il valore in campo più importante da assicurare e da vivere.

Per fare bene tale discernimento è importante avere il cuore libero, libero da interessi ed egoismi personali, ma libero anche dalla paura di scontentare qualcuno. È il giusto che dobbiamo cercare.

Per trovarlo, il giusto, può essere di grande aiuto il dialogo, lo scambio dei pareri, il chiedere consiglio.

8.         L’obbedienza, infine, è una grazia; una grazia da domandare e da chiedere al Signore, che fu il grande obbediente, obbediente fino al dono totale di sé.

Don Giovanni Unterberger