Ero ragazzo e sentivo di tanto in tanto mia mamma che diceva: “Santa pazienza!” Le capitava che il latte bollito tracimasse dal pentolino, e diceva: “Santa pazienza!”; mi vedeva arrivare a casa dal gioco con uno strappo nei calzoni, e diceva: “Santa pazienza!”; attendeva mio papà che tardava ad arrivare a pranzo, e diceva: “Santa pazienza!”. E io, nella mia piccola testa, mi chiedevo: “Ma come fa la pazienza ad essere santa?” Non capivo; capii più avanti, nel corso degli anni: la pazienza è veramente ‘santa’, perché è una virtù altissima, e perchè rende santo chi la esercita e la pratica.
Il greco chiama la pazienza ‘ypomoné’ ( ̔υπομονή ), parola formata da due parole: ‘ypo’ che significa ‘sotto’, e ‘moné’ che, dal verbo ‘méno’, significa ‘rimanere’. La pazienza è la forza e la capacità di rimanere sotto pesi, sotto situazioni dure, difficili e dolorose senza lasciarsi vincere e schiacciare. La pazienza è resistenza a pesi pesanti.
Il latino chiama la pazienza ‘patientia’, parola che deriva dal verbo ‘patior’, che significa ‘soffrire’. La pazienza è virtù che dona capacità di patire, di soffrire.
La pazienza non è un atteggiamento spontaneo nell’uomo; più spontanea nell’uomo è l’impazienza. Di fronte a un contrattempo e a un cambio improvviso e obbligato di programma, di fronte ad un affare andato male e ad un insuccesso, di fronte ad una scortesia ricevuta e ad un’offesa subìta, la reazione più spontanea e più immediata è l’impazienza.
La pazienza è il risultato di un insieme di virtù. Molte virtù sono necessarie alla pazienza. E’ necessaria la virtù della fortezza; chi fosse spiritualmente debole e fragile non riuscirebbe ad essere paziente. Si dice infatti: “La pazienza è la virtù dei forti”. E’ necessaria la virtù della mitezza; l’iracondo non è paziente. E’ necessaria la virtù della speranza; chi ha fiducia in un futuro migliore è aiutato ad essere paziente. E’ necessaria la virtù della misericordia; il misericordioso è paziente. E’ dunque una bella impresa essere pazienti!
Alla pazienza giova tanto la fede. San Paolo nella lettera ai Romani dice: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28). Le parole dell’apostolo invitano a guardare con fede la realtà, a non considerarla ostile e nemica, ma luogo di un disegno buono di salvezza; invitano a sapersi riconciliare con la realtà. Un cuore riconciliato con la realtà sarà paziente; un cuore, invece, ribelle alla realtà sarà sempre in subbuglio. Dio agisce ed opera attraverso gli avvenimenti per il nostro vero bene; la fede ce lo assicura, e sostiene la nostra pazienza.
Non è però che la pazienza esiga di sopportare tutto supinamente. Essa non impedisce e non vieta che si possa anche reagire. Un detto molto sapiente recita: “Signore, dammi la serenità di accettare le cose che non poso cambiare, la forza e il coraggio di cambiare quelle che posso, e la saggezza di conoscerne la differenza”. Ci sono cose che non si possono cambiare e che vanno accettate con pazienza; ci sono invece cose che si possono cambiare e che vanno cambiate. Importante è capire quali sono le une e quali le altre.
Nei rapporti interpersonali la pazienza non impedisce e non vieta che si presentino le proprie rimostranze a chi ci avesse ingiustamente offeso. Essa chiede che l’intervento sia fatto con mitezza, senza violenza, senza animo cattivo e con la disponibilità al perdono, ma talvolta l’intervento non solo può essere fatto, ma ‘deve’ essere fatto, per il bene proprio e per il bene anche di chi ci avesse offeso.
La pazienza è una grande virtù, una virtù tanto preziosa e tanto necessaria; essa toglie ogni violenza nei rapporti tra le persone, favorisce la comunione e la pace, pur nel confronto e nel dialogo franco e sincero. La pazienza è una virtù veramente ‘santa’, è una virtù da santi! Aveva ragione mia mamma a dire: “Santa pazienza!”