30° Domenica del Tempo ordinario (forma ordinaria)

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Sir 35, 15b-17.20-22a;   2 Tim 4,6-8;   Lc 18,9-14

Duomo di Belluno, 23 ottobre 2016

Nella parabola che abbiamo ora ascoltato Gesù ha messo vicini tra di loro, a confronto, un fariseo e un pubblicano. C’è un personaggio che nella sua vita ha incarnato tutte e due queste figure; un personaggio importante, che è stato fariseo e che poi da fariseo si è convertito, riconoscendosi peccatore, bisognoso di misericordia e di salvezza: è l’apostolo Paolo.

Paolo nella lettera ai Filippesi scrive di sé: “Sono stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, circonciso l’ottavo giorno, fariseo quanto alla legge, irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3-5-6); e nella lettera ai Galati scrive: “Superavo nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri” (Gal 1,14).

Paolo era fariseo, un fariseo doc, convinto e acceso; era addirittura membro del Sinedrio, la più importante assise di Israele. Da fervente fariseo Paolo osservava la legge di Mosè alla lettera, e riteneva che dall’osservanza della legge sarebbe derivata la sua salvezza. Ma sulla via di Damasco, mentre vi andava a incarcerare i cristiani di quella città, gli apparve il Signore, che gli fece comprendere che a salvarlo era lui, Gesù, e che Paolo non si sarebbe potuto salvare da solo, con le proprie opere. Fu la fine di Paolo fariseo.

Paolo cominciò a scrivere nelle sue lettere: “Tra tutti i peccatori il primo sono io” (1Tim 1,15); “Non riesco a capire ciò che faccio; nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. C’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio; quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Sono uno sventurato. Cristo, solo Cristo, mi può salvare!” (Rom 8,14-25). E Paolo si riconobbe peccatore; nella lettera ai Romani scrive: “Tutti sono sotto il dominio del peccato; non c’è nessun giusto, nemmeno uno; tutti hanno traviato e si sono pervertiti” (Rom 3.9-12). Tutti, quindi, hanno bisogno della misericordia e del perdono di Dio.

Da superbo fariseo, Paolo, accecato dall’orgoglio, si riteneva giusto e santo, pago delle sue opere, in diritto di giudicare e disprezzare pubblicani e peccatori; ma la verità era un’altra: anche lui era peccatore, anche lui era mancante e inadempiente; anche lui aveva bisogno di perdono e di salvezza. Da fariseo Paolo diventò pubblicano.

E’ il cammino richiesto a tutti noi. Non siamo giusti, non possiamo dire:“O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini peccatori”, perché peccatori lo siamo anche noi. Non c’è spazio al mondo per i farisei; i farisei sono fuori posto; al mondo c’è spazio e posto solo per pubblicani e peccatori. Ma non è poi così condizione di perdizione essere peccatori; per il peccatore c’è la possibilità di rivolgere al Signore la preghiera del pubblicano della parabola: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” e di tornare a casa giustificato, trovare aperte le braccia del Signore pronte ad accoglierlo e ad abbracciarlo.

Il fariseo della parabola -ci ha detto il Vangelo- disprezzava gli altri. Noi non ci sentiremo di disprezzare nessuno. Ci ricorderemo delle parole di Gesù: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra” (Gv 8,7); e, semmai, se vedremo qualcuno peccare, pregheremo per lui, consci che è un nostro fratello, e che noi siamo della stessa pasta.

don Giovanni Unterberger

 

 

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