7^ Domenica dopo Pentecoste 2018 (rito straordinario)

(Rm 6,19-23;  Mt 7,15-21)

Belluno, chiesa di s. Pietro, 8 luglio 2018

Noi siamo alberi buoni? alberi cattivi? Come sono i nostri frutti? I nostri frutti ora sono buoni, ora sono cattivi, ora sono dolci e maturi, ora sono aspri e acerbi. Chi ci vive accanto lo sperimenta; e anche noi stessi lo avvertiamo e ce ne accorgiamo. E se è vero -come dice Gesù- che un albero si riconosce dai frutti, dobbiamo dire e concludere che siamo alberi un po’ buoni e un po’ cattivi, un po’ sani e un po’ malati.

Alle volte capita di vedere piante molto alte, ricche di rami e di fronde, con alcuni rami, però, che hanno perso il loro verde: sono malate. Vivono, ma sono malate. I contadini si allarmano qualora notassero delle macchie gialle sulle foglie delle viti della loro vigna : capiscono che le viti sono malate, sono intaccate da una delle più gravi malattie della vite, la peronospora, e corrono ai ripari spargendo su di esse una miscela di rame e di calcio. Occorre curare ciò che fosse malato.

La pianta che siamo noi, che è la nostra vita, ha bisogno di essere curata. Non siamo del tutto sani. Gesù nel Vangelo parla spesso di piante: parla di piante che si sviluppano da piccoli semi (cfr Mt 13,31.32); di piante di fichi ricche di foglie (cfr Mc 11,13); di piante di grano (cfr Lc 6,1); di viti (cfr Gv 15,1-6). A questo proposito, l’immagine della vite ci è di grande insegnamento; con questa immagine Gesù ci dice una cosa di capitale importanza, che scombina il nostro modo di pensare e di concepirci. In che senso?

Noi ci concepiamo ‘piante’ a sé stanti; piante che hanno proprie radici, che vivono in un proprio terreno, che hanno una propria vitalità, più o meno grande. E invece Gesù ci chiama ‘tralci’: ‘Voi siete tralci -egli ci dice-. Voi non dovete essere piante a sé; finché rimante piante a sé stanti, voi andate incontro ad ogni sorta di malattia; vi ammalate, producete frutti malati, arrivate fino a seccare. Se invece vi innestate in me, che sono la pianta buona, così che la vostra radice non siate voi, ma sia io, allora fiorirete come piante meravigliose che portano frutti abbondanti e maturi. Perché sono io la pianta buona! Rimanete in me e io in voi -egli ci esorta- Chi rimane in me e io in lui fa molto frutto’ (Gv 15,4.6).

Come fare a rimanere in lui, in Gesù? Tenendolo presente; presente come un fiume la sua sorgente, come un uccello il suo nido, come un bambino il seno della mamma. Gesù presente sempre, in ogni momento, quanto più possiamo lungo la giornata. Don Giussani scrive: “Che cosa fissi alla mattina quando ti alzi? Che cosa fissi quando sei con la tua donna o con il tuo uomo? Che cosa fissi quando sei coi tuoi figli? Che cosa fissi quando sei sul lavoro? che cosa fissi quando ti interessi di politica? Cosa fissi nel tuo tempo libero?” (L. Giussani, La convenienza umana della fede, pag. 159-160).

Fissare Gesù, tenerlo presente, averlo davanti agli occhi fa sì che noi, ‘piante’, ci innestiamo in lui; e allora la sua linfa arriva a noi, scorre in noi, e noi piante malate, veniamo guarite, veniamo rese sane e portiamo frutti buoni, saporiti e maturi. “E’ davvero stupefacente ciò che Gesù può generare in noi, se viviamo con lui”, scrive don Carron (J. Carron, Esercizi della Fraternità di CL, pag. 31).

Ecco, dunque, la questione, il problema, l’opera da compiere: una specie di impianto, di innesto di noi in Cristo. Non c’è altra via, non c’è altra strada per un miglioramento nostro e del mondo. Ogni altra proposta, diversa da questa, è fallace e menzognera. La pianta buona è Cristo.

Ci dia il Signore di lavorare davvero a questo innesto; di desiderarlo, di metterlo in cima ai nostri pensieri; e allora la nostra vita fiorirà.

don Giovanni Unterberger

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