32^ domenica del Tempo Ordinario (forma ordinaria)

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(2Macc 7,1-2. 9-14;    2Tess 2,16 – 3,5;    Lc 20,27-38)

Duomo di Belluno, 10 novembre 2019

Mentre i farisei, al tempo di Gesù, credevano nella risurrezione dopo la morte, i sadducei la negavano. I sadducei erano i gestori del culto al tempio, ne regolavano le celebrazioni, riscuotevano le offerte dei pellegrini; sarebbero dovuti essere pii e religiosi, e invece erano profondamente materialisti. Non credevano nelle realtà invisibili e nella risurrezione, e su questo terreno sfidarono Gesù. Presero le mosse dalla legge del levirato, stabilita nel libro del Deuteronomio, che prescriveva che se un uomo sposato fosse morto senza figli, il fratello del defunto sposasse la vedova, per dare una discendenza al fratello morto (cfr Dt 25,5-6), e proposero a Gesù un caso particolare che, probabilmente, era più fittizio che reale (si richiamava al racconto dei sette mariti di Sara morti uno dopo l’altro prima che sposasse Tobia, cfr Tb 3,8).

Il quesito tendeva a mettere in difficoltà Gesù: di chi sarebbe stata moglie, quella donna, nel caso ci fosse stata la risurrezione? ‘Per noi -sembravano dire i sadducei- la cosa non fa problema; non si risorge! Ma tu, Gesù, che ammetti la risurrezione, che risposta dai?’ E Gesù, rivelando che nell’al di là il vincolo matrimoniale non esisterà al modo in cui è qui sulla terra, ma che le relazioni interpersonali saranno diverse, secondo la fantasia buona di Dio, e richiamandosi al libro dell’Esodo, affermò con forza: “Dio non è dei morti, ma dei viventi”, noi risorgeremo.

Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione pastorale ‘Gaudium et spes’, ha una pagina molto chiara e profonda a riguardo della morte e della risurrezione; la risentiamo, anche se la citazione è un po’ lunga: “In faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge, l’uomo, al pensiero dell’avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre. Ma l’istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il germe dell’eternità, che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte.

Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento della longevità biologica non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore che sta dentro invincibile nel suo cuore. Se qualsiasi immaginazione viene meno di fronte alla morte, la Chiesa invece, istruita dalla rivelazione divina, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini della miseria terrena. Inoltre la fede cristiana insegna che la morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato, sarà vinta, quando l’uomo sarà restituito allo stato perduto per il peccato, dall’onnipotenza e dalla misericordia del Salvatore.  Dio infatti ha chiamato e chiama l’uomo a stringersi a lui con tutta intera la sua natura in una comunione perpetua con la incorruttibile vita divina.

Questa vittoria l’ha conquistata Cristo risorgendo alla vita, dopo aver liberato l’uomo dalla morte mediante la sua morte. Pertanto la fede, offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari già strappati dalla morte, col dare la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio” (Conc. Vat. II, Costituz. ‘Gaudium et spes’, n. 18).

Gesù, col dire quel giorno ai sadducei: “Dio non è dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per lui”, porta luce alla nostra vita e alla nostra morte; dona speranza e fiducia al nostro cuore; e insieme ci invita a vivere bene il tempo quaggiù, perché la nostra risurrezione possa essere di gloria e di vera felicità.

don Giovanni Unterberger

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