(2 Cor 3,4-9; Lc 10,23-37)
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Belluno, chiesa di s. Pietro, 23 agosto 2020
“Un samaritano, accostatosi, gli fasciò le ferite versandogli olio e vino, lo caricò sulla propria cavalcatura, e lo portò in un albergo”. Era ferito, quel malcapitato caduto in mano ai ladroni; giaceva a terra mezzo morto. Quell’uomo siamo noi; quell’uomo è simbolo di ogni uomo. Quale uomo è senza ferite? Accade alle volte di ascoltare persone che ti raccontano la propria vita, che in un momento di confidenza ti aprono il cuore, sollevano il velo su quello che è stato il loro cammino, il loro vissuto; e tu resti sorpreso, stupito, e ti senti commuovere da quanto ti dicono, dalle sofferenze e fatiche che hanno dovuto sopportare, dai colpi duri che da eventi o da persone hanno ricevuto. Tocchi cuori feriti…
Anche noi, ciascuno, ha le proprie ferite. Ed è una grazia il trovare chi a cui poterle dire e confidare, per avere aiuto e sollievo.
La parabola che abbiamo ora ascoltato, del buon samaritano, ci invita ad essere guaritori, lenitori di ferite. Un primo passo sta nel presupporre che qualche piaga ciascuno la porti in sé. Anche persone sorridenti e capaci di buone relazioni che si incontrano, e che diresti del tutto felici, possono nascondere nel loro intimo qualche dolore e qualche sofferenza.
Il secondo passo è coltivare in sé la sensibilità e l’apertura all’altro. Il samaritano stava facendo viaggio su di un giumento; il Vangelo dice che caricò il ferito sulla propria cavalcatura, quindi non stava viaggiando a piedi; seppe scendere dalla propria cavalcatura e caricarvi il ferito. Nostra ‘cavalcatura’ è il nostro ‘io’; finché restassimo incentrati in noi stessi, nei nostri pensieri, nelle nostre cose, magari prigionieri delle nostre personali ferite, non riusciremmo ad aprirci ai fratelli. E’ necessario scendere dalla cavalcatura dell’‘io’, e far posto a chi incontriamo e ha bisogno di soccorso. Ciò farebbe bene anche a noi. E’ vero, infatti, il detto: ‘fare del bene fa stare bene’; curare le ferite altrui cura anche le proprie ferite, ci decentra da noi, ridimensiona il nostro male e ce lo fa sentire meno forte.
C’è poi un altro insegnamento che il samaritano ci dà, ed è la giusta misura nell’aiutare. Egli non fa tutto da solo, affida il ferito ad un albergo. Possiamo pensare che avesse un impegno inderogabile preso con qualche persona, o qualcosa a cui doveva preminentemente provvedere, per cui capì che non poteva fermarsi lui stesso a curare il ferito, ma doveva continuare il viaggio, pur non disinteressandosi totalmente di quell’uomo. Nell’aiutare i fratelli è necessario capire ciò che è giusto, la giusta misura richiestaci. Può darsi il caso che l’aiuto che ci è possibile dare sia solo parziale; che le circostanze, le risorse economiche, le forze fisiche ci impediscano di risolvere il problema altrui del tutto, e che lo possiamo fare solo in parte. E’ questa ‘parte’ che dalla carità ci è richiesta, non di più. Ad essa possiamo aggiungere la preghiera, preghiera per qual fratello, per quella sorella. Anche il Signore può aiutare!
“Ama Dio e ama il prossimo, se vuoi aver la vita eterna”, disse Gesù al dottore della legge che lo interrogava. Viviamo anche noi questi due comandamenti: Dio amato per primo, e il prossimo amato sull’esempio del buon samaritano.
don Giovanni Unterberger