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(Sir 27,30 – 28,7; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35)
Duomo di Belluno, 13 settembre 2020
Tommaso Moro era il cancelliere del regno d’Inghilterra, carica prestigiosa. Nell’anno 1535 fu decapitato per ordine del re Enrico VIII per non aver acconsentito all’Atto di supremazia con cui il re si proclamava Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra, sottraendola alla Chiesa cattolica, e quindi consumando uno scisma. Davanti alla Corte che emanò la sua condanna a morte, disse: “Non ho nulla da aggiungere, Signori, se non questo: come l’apostolo Paolo, secondo quanto leggiamo negli Atti degli apostoli, assisté consenziente alla morte di santo Stefano, custodendo addirittura gli abiti di coloro che lo lapidavano, e tuttavia ora è con lui, santo in cielo, e là essi resteranno uniti per sempre, veramente allo stesso modo io spero (e pregherò intensamente per questo) che io e voi, miei Signori, che siete stati miei giudici e mi avete condannato sulla terra, possiamo tutti insieme incontrarci con gioia in cielo per la nostra salvezza eterna”. Fu canonizzato da papa Pio XI nel 1935. Tommaso Moro, esempio di perdono; perdono a coloro che, per ragion di stato, ingiustamente, gli toglievano la vita.
“Fino a quante volte dovrò perdonare a mio fratello? -chiese l’apostolo Pietro a Gesù- fino a sette volte?”. Il numero sette nella cultura ebraica diceva già pienezza, totalità; ma Gesù andò infinitamente oltre: “Fino a settanta volte sette”, gli rispose. Il perdono è necessario perché possano persistere le relazioni, perché l’umanità, le comunità, di qualsiasi tipo, la stessa famiglia, le amicizie, non si rompano e non vadano distrutte; è necessario per il fatto che siamo tutti difettosi, e tutti continuamente ci molestiamo e ci offendiamo a vicenda, sia pure, alle volte, senza volerlo e neppure accorgendocene. Il Priore del monastero di Norcia mi disse che uno tra i suoi sforzi principali era di convincere se stesso e i suoi monaci che ciascuno era, almeno un po’, un peso per gli altri monaci. Il perdono è necessario.
Il perdono lo si dà con la ragione e la volontà; esso può esistere anche se la memoria continuasse a ricordare l’offesa ricevuta: la volontà non ha pieni poteri sulla memoria, sono due facoltà differenti. Può essere che io ‘ricordi’ il male ricevuto e tuttavia abbia perdonato, se ho ‘voluto’ perdonare; e se ad ogni volta che il ricordo mi ritorna rinnovo il perdono.
Può accadere che chi mi ha offeso non se ne scusi con me, io devo ugualmente dentro di me perdonare, non alimentare odio e risentimento, rimanere aperto alla riconciliazione; benché la comunione e la riappacificazione piena possano avvenire unicamente se l’offensore riconosce il suo errore e si ravvede. Non ci può essere riconciliazione vera, infatti, se non nella verità, oltre che nella carità, cioè se l’offensore riconosce il proprio errore. Così fa Dio con noi: egli è solo perdono e di suo perdona sempre, ma il suo perdono, e quindi la riconciliazione, non ci arrivano se noi non ci pentiamo e non chiediamo perdono.
La parabola che Gesù ha raccontato nel Vangelo svela il nesso e la relazione che c’è tra il nostro dare il perdono ai fratelli e il bisogno che abbiamo di essere perdonati da Dio. Saremo perdonati se perdoneremo. “E’ un cattivo richiedente colui che non concede ciò che a sua volta ha bisogno di ricevere”, dice un Padre della Chiesa. E il perdono di cui abbiamo bisogno da parte di Dio è infinitamente più grande del perdono che siamo chiamati a dare al nostro prossimo: diecimila talenti a confronto di cento denari. E’ particolarmente espressivo il proverbio etiope che dice: “Chi non perdona agli altri, distrugge il ponte nel punto in cui anche lui deve passare”. Sul ponte del perdono di Dio dobbiamo tutti passare, per non andare perduti; rafforziamo quel ponte, perché tenga e non crolli, con un perdono generoso dato ai nostri fratelli. E siccome perdonare è difficile, e talvolta al di sopra delle nostre forze e capacità, chiediamolo al Signore come dono, come grazia. Noi, e il mondo, abbiamo grande bisogno di questa grazia!
don Giovanni Unterberger