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(1 Cor 12,2-11; Lc 18, 9-14)
14 agosto 2022, risalente al 28 luglio 2013
Farisei e pubblicani. L’ambiente religioso in cui Gesù visse era fortemente contrassegnato da queste due presenze. C’erano anche altri gruppi di persone e altre correnti religiose in Palestina al tempo di Gesù; c’erano i sadducei, gli zeloti, gli esseni, i battisti; ma certamente i farisei e i pubblicani furono quelli con cui Gesù entrò più in contatto. Con i pubblicani e i peccatori, perché Gesù si sentì particolarmente inviato a loro (“non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori”, egli disse – Mt 9,12); e i farisei, perchè essi furono coloro che più gli diedero fastidi, disturbo e problemi.
Con la parabola del fariseo e del pubblicano Gesù entrò profondamente nel loro ambito di vita, nel loro mondo interiore, nella loro – potremmo dire – spiritualità, per esprimere un suo preciso giudizio.
Luca introduce la parabola del fariseo e del pubblicano con un’annotazione che è importante tenere presente, per capire esattamente il pensiero di Gesù. Dice Luca: “Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Questi alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri erano appunto i farisei.
In essi Gesù coglieva un atteggiamento molto brutto e molto sbagliato. Sbagliato, perché i farisei non erano, in effetti, “giusti”, come essi ritenevano di essere. Sì, è vero, essi erano particolarmente impegnati nell’osservanza della legge di Mosè, si sforzavano in tutti i modi di vivere secondo i comandamenti del Signore (il fariseo della parabola può dire: “non sono ladro, ingiusto, adultero; digiuno due volte la settimana e pago tutte le decime prescritte”); ma ciononostante, nonostante che i farisei fossero tanto impegnati nell’osservare la legge di Dio, non potevano dirsi “giusti”; era una loro presunzione il sentirsi “giusti”.
Chi è infatti “giusto” davanti a Dio? chi non è peccatore davanti a lui? “Sette volte al giorno pecca il giusto”, dice il libro dei Proverbi (Pr 24,16); e il libro di Giobbe dice: “Può il mortale essere giusto davanti a Dio, o innocente l’uomo davanti al suo creatore? Anche negli angeli Dio vede difetti, quanto più in noi che abitiamo case di fango” (Gb 4,17-19).
“Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi potrò sussistere?”, grida il salmista (Sal 130,1.3); e in un altro passo egli confessa: “Le mie colpe mi opprimono; sono più numerose dei capelli del mio capo” (Sal 19,13).
Siamo tutti peccatori; “Nessun vivente davanti a Dio è giusto”, dice la Sacra Scrittura (Sal 143,2).
Il testamento spirituale di papa Pio XII iniziava così: “Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam” (Sal 51,1). Queste parole che pronunciai al momento della mia elezione a Sommo Pontefice, ben consapevole dei miei limiti e dei miei peccati, ripeto ora davanti a te, o Signore, con maggiore convinzione e consapevolezza, nel momento di presentarmi al tuo cospetto. Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam”.
Questo salmo, il “Miserere”, il salmo della richiesta di perdono per i peccati, è il salmo con cui i monaci benedettini iniziano ogni mattina il canto delle Lodi. Per prima cosa chiedono il perdono dei loro peccati.
Era dunque un atteggiamento sbagliato, quello dei farisei, di sentirsi “giusti”; e sarebbe un atteggiamento sbagliato anche il nostro, se ci sentissimo tali, se non fossimo convinti di essere peccatori, profondamente peccatori.
L’atteggiamento dei farisei, poi, oltre che essere sbagliato, era anche brutto. Brutto perché “disprezzavano gli altri”, dice Luca. Il termine che Luca usa, e che la traduzione italiana rende con “disprezzare”, è un termine molto forte; è il verbo “exouthenéo”, che viene da “outhén”, pronome che in greco significa “niente”. Per cui “exouthenéo” significa “calcolare un niente”, “ritenere una cosa o una persona come un niente, un nulla, come non esistesse, ritenerla senza alcun valore”.
I farisei ritenevano i peccatori e i pubblicani “un niente”. Ecco il loro peccato, il loro più grande peccato: ritenersi superbamente giusti, e ritenere gli altri “un niente”, non averne alcuna stima, disprezzarli. “Ti ringrazio Dio, di non essere come quel pubblicano in fondo al tempio”, dice il fariseo della parabola. E invece ogni persona è un tesoro davanti a Dio; per ogni persona Dio ha lasciato il cielo e si è incarnato, ha dato la vita; di ogni persona Dio dice: “Ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni; sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stima e io ti amo” (così in Is 43,1-3). E san Paolo esorta: “gareggiate nello stimarvi a vicenda” (Rm 12,10); “ciascuno, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,3). Ecco dunque: avere stima di ogni fratello, di ogni sorella…; saper vedere il bene, il valore, il dono, che Dio ha posto in ogni fratello, in ogni sorella… tutti hanno in sé e portano in sè il segno di Dio. Disprezzare, non apprezzare, il fratello, la sorella, è disprezzare, non apprezzare Dio stesso.
Gesù conclude la parabola dicendo che il fariseo tornò a casa non giustificato, a differenza del pubblicano che tornò a casa giustificato.
L’umiltà giustifica; l’umiltà attira grazia; l’umiltà è la porta attraverso la quale arriva all’uomo la salvezza di Dio. Ci dia il Signore l’umiltà del pubblicano; ci liberi e ci preservi dall’orgoglio del fariseo. L’orgoglio la Bibbia lo chiama “il grande peccato” (Sal 19,14); dell’umiltà la Bibbia dice: “Un cuore contrito e umiliato tu, o Dio, non lo disprezzi; è sacrificio a te gradito” (Sal 51,19).
don Giovanni Unterberger